lunedì 30 giugno 2008

Altro editoriale interessante

Continuo a riportarvi articoli ed editoriali di giornalisti dello "schieramento a noi avverso".

Questo è Antonio Polito, sul Riformista.

Buona lettura

venerdì 27 giugno 2008

Un equilibrato parere sullo squilibrio di poteri

Ho trovato molto interessante questo editoriale di Piero Ostellino, ringrazio Camelot per la segnalazione

di Piero Ostellino

In un’intervista pubblicata ieri dal Corriere, l’ex magistrato ed esponente del Partito democratico, Luciano Violante, mette il dito in una delle piaghe del nostro ordinamento: «In Italia, l’azione penale è obbligatoria solo formalmente ma, in realtà, è lasciata alla discrezionalità dei singoli magistrati». Detto con altre parole: i magistrati perseguono selettivamente chi vogliono, secondo criteri soggettivi che rischiano di tracimare nell’arbitrio. Prosegue, infatti, Violante: «E’ giusto, quindi, affrontare il problema della priorità nella trattazione dei processi, ma il potere politico non può sospendere i processi in corso». Detto con altre parole: una legge che regoli il flusso dei reati da rinviare a giudizio è necessaria. Ma un clamoroso esempio di «distorsione da discrezionalità » lo offre, quasi contemporaneamente alle parole di Violante, L’Espresso oggi in edicola, che pubblica le intercettazioni di alcune delle ben novemila (9000!) telefonate depositate nell’inchiesta napoletana. In realtà, i Pm napoletani non le hanno depositate tutte perché le hanno ritenute non rilevanti e successivamente destinate, scrive il settimanale, alla distruzione, ma molte sono finite nella disponibilità dei giornalisti. I quali, pur pubblicandole — un giornale non deve preoccuparsi se sia giusto o no pubblicare un documento giudiziario che gli è pervenuto, purché la legge sia rispettata—correttamente mette in luce il carattere anomalo della situazione.

L’intervento di Violante sul Corriere e la cronaca di una sfuriata ai magistrati del vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, Nicola Mancino, pubblicata dalla Stampa — «Parlate troppo con i giornalisti. Volete sempre apparire» — si inquadrano nel dibattito in corso sui recenti provvedimenti sulla Giustizia in merito al quale è, forse, utile fare qualche distinzione. I problemi giudiziari di Silvio Berlusconi-padrone- di-Mediaset riguardano lui solo e stanno tutti negli atti processuali. I rapporti fra il capo del governo- chiunque-egli-sia e l’ordine giudiziario riguardano lo Stato. Sono una questione istituzionale della quale si deve occupare la politica. Ha sbagliato, dunque, Berlusconi ad andare a parlare dei suoi problemi personali all’assemblea della Confesercenti. Fa tutta la differenza fra un imputato, preoccupato della propria sorte, e uno statista, sensibile al corretto funzionamento dello Stato. Sbaglia anche Antonio Di Pietro, ignorando i rapporti fra esecutivo e giudiziario per concentrarsi unicamente sui problemi personali di Silvio Berlusconi. Fa tutta la differenza fra un uomo politico, attento agli interessi del Paese, e un poliziotto sensibile al tintinnare delle manette.

Dei rapporti fra esecutivo e ordine giudiziario si sta occupando, invece, con equilibrio e saggezza, il capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Ne parlano, sia pure con toni diversi, ma con non minore equilibrio istituzionale, sia Violante, sia Mancino. Quest’ultimo mette il dito nella piaga di un’altra anomalia del nostro ordinamento. E’ stata depositata da due consiglieri una bozza di parere che è già in discussione nella Sesta commissione e che il Csm dovrebbe discutere pubblicamente e votare la settimana prossima. Parla di «incostituzionalità» del decreto governativo sulla sospensione dei processi.

Ora, non si capisce chi dia il diritto al Csm di dire che una norma emanata dal Parlamento è incostituzionale. Non c’è un solo articolo della Costituzione che attribuisca al Csm un preventivo controllo di costituzionalità sugli atti parlamentari; controllo che, se mai, spetta al presidente della Repubblica con veto sospensivo, comunque superabile da un voto parlamentare a maggioranza semplice. Così, Mancino sbotta: «Capisco che si scriva di una norma che è inappropriata. O irragionevole. Ma che c’entra la Costituzione?». Aggiunge Violante nell’intervista citata: «...non è scandaloso che ci siano forme di garanzia temporanea per alcune cariche istituzionali». A certe condizioni, tutte da discutere. Aveva scritto il Financial Times qualche giorno fa: «Spagna, Francia, Germania e altri Stati hanno una qualche forma di immunità (...) Lo scopo dell’immunità non è quello di consentire agli eletti mano libera. Bensì quello di proteggere il diritto degli elettori di farsi governare da coloro che hanno democraticamente scelto. Le accuse a Berlusconi derivano da un sincero desiderio di giustizia o dal tentativo di una parte dell’elite italiana di capovolgere una scelta elettorale che non accetta?». Questo — al di là dei personali problemi giudiziari di Berlusconi—è parlare di rapporti fra potere esecutivo e ordine giudiziario. E’ politica. «Il resto — come dice Violante, riferendosi a Di Pietro—è demagogia»

27 giugno 2008

Ancora sulla questione giustizia

Ho senttito parlare più volte l'On. Giovanardi di Giustizia, del suo estremo rispetto per essa legato allo sconcerto dell'uso che se ne è fatto nel periodo di tangentopoli (non ha mai rinnegato il suo iniziale entusiasmo per l'azione dei giudici di Milano, che rivelavano la corruzone, salvo poi rendersi conto che tanti innocenti venivano coinvolti senza motivo e da qui il suo ottimo libro "STORIE DI STRAORDINARI INGIUSTIZIA - Arrestati, Infangati e Prosciolti" edito da Mondadori ).

Vi sottopongo un post approfondito e "polemico" tratto dal blog di Barbara Di Salvo:


Lo scontro era inevitabile e direi necessario.

Ben venga, quindi, che sia scoppiato con tanta irruenza, perché è stata proprio l’ipocrisia e, più spesso, la paura a permettere a certi giudici di dare un così pesante contributo al degrado italiano.

Sapete come la penso ed è inutile che vi ricordi gli innumerevoli esempi per cui tanti di loro meriterebbero di essere cacciati con ignominia e disonore, oltre che processati a loro volta.


È dai primi anni ’90 che i politici conniventi, terrorizzati e ipocriti si fanno influenzare dai magistrati.

Chi, come la sinistra, sposando il giustizialismo, convinta com’era che i giudici amici, dopo essersi fatti pagare l’università da Botteghe Oscure, fossero soldati al loro servizio, una volta al potere si è accorta sulla sua pelle che questi pretendevano di gestirlo loro stessi il potere, tenendo i politici al proprio guinzaglio. Giusta compensazione per certi ingenui, che non si sono accorti di coltivarsi una così pericolosa serpe in seno, esser caduti per colpa di un giudice che non gradiva che il Guardasigilli fosse Mastella anziché lo scudiero Di Pietro.


Proprio quel Tonino, che oggi finalmente svela il disegno politico, non certo ideato da lui, che lo ha portato dall’aula di (in)giustizia a quella politica, senza passare dal via. Perché stupirsi se oggi dà il meglio di sé? Lui è lì con uno scopo ben preciso: permettere alla magistratura di prendere il potere, senza sottomettersi a quello scomodo esercizio democratico che è il voto. Lui dall’alto del suo 4% sta dettando la linea politica dell’opposizione, ormai in bambola completa, e cerca di distogliere l’opinione pubblica dagli ottimi primi provvedimenti del governo, buttandola in rissa.


Ebbene, sembra che finalmente certi golpisti abbiano trovato pane per i loro denti. Sembra che finalmente un politico, che il voto degli italiani se lo è ampiamente guadagnato, abbia deciso di non sottostare più al ricatto, di smetterla di aver paura ed agire in maniera decisa.

Ottimo Silvio, la miglior difesa è l’attacco.

Sembra anche che gli alleati stiano resistendo al richiamo delle sirene del conflitto di interessi. Ci dimostreranno anche loro se hanno davvero la forza che occorre per affrontare uno scontro democratico senza precedenti ed ormai indispensabile.


E non crediate che lo scontro sia sul processo Mills o su uno dei tanti che 789 magistrati in 15 anni hanno messo in piedi contro il nostro nanetto Imputatolo senza cavare un ragno dal buco.

Questa è solo la facciata, serve per indignare l’opinione pubblica, che per fortuna non dà loro retta.

Ed è persino evidente che non stanno sbraitando tanto per far andare avanti quel processo.

Se davvero la Marxus avesse voluto condannarlo, se davvero avesse avuto le prove, lo avrebbe già fatto. Tanti anni e tanta passione politica e non riesce a chiudere neppure il primo grado? O è del tutto incompetente o sa di non avere niente in mano. Tanto più che sa di averla tirata talmente tanto per le lunghe che la prescrizione si avvicina.

Politicamente è molto più utile una spada di Damocle sulla testa di Imputatolo che una sentenza facilmente ribaltabile in appello. E se proprio dobbiamo emetterla questa sentenza, molto meglio farla quando è in carica, così lo mandiamo in crisi. Chissà perché, infatti, negli anni scorsi di quel processo non si è più sentito parlare ed è ripartito solo in campagna elettorale?

Ma davvero pensate che sono così tanti i fessi che credono nella vostra buona fede? Ecco, vi siete appena contati: giusto il 4% di voti del vostro scudiero.

Altra dimostrazione lampante che il problema non è quel processo? Erano disposti a barattare la blocca-processi con il lodo Schifani. Più di così.


Lo scontro, infatti, è da tutt’altra parte e, secondo me, non è neppure nella sospensione di un anno di processi precedenti al 2002.

Ma vi pare che a distanza di 6 anni, per reati minori, abbiano il coraggio di parlare di ragionevole durata del processo violata da questa sospensione? Cosa saranno mai 24 mesi in più?

Stanno sbraitando come ossessi, ma sono convinta che in fondo il loro cruccio non sia quello.

Ragionate un attimo come se al governo ci fosse ancora Prodi (scusate per il brivido di orrore che vi ho causato). Pensate che il dott. Maddalena, procuratore capo a Torino, dica ai suoi PM di dare la precedenza ai reati più gravi e di far slittare gli altri processi. Immaginate che questa riorganizzazione dei ruoli funzioni e il Tribunale di Torino riesca a smaltire gli arretrati ed a diventare uno dei più efficienti d’Italia. Immaginate poi che il prode Gongolo decida di estendere questo metodo per legge. Oggi sentiremmo gli osanna per tanta saggezza.

Ma il prode era amico dei giudici, che non temevano certo che lui mettesse becco nella loro disorganizzazione, perché avrebbe comunque lasciato loro la massima discrezionalità ed impunità di cui hanno goduto finora.


Ecco dove sta il problema. I giudici sanno che questo è solo il primo passo di una rivoluzione che li costringerà a lavorare come in un Paese civile.

Già le prime avvisaglie ci sono state e, per quanto passate inosservate ai media, sono epocali.

Sono paroline buttate qua e là nel decreto sicurezza che li stanno terrorizzando.

Casi in cui procedere con giudizio immediato o direttissimo non è più una facoltà, ma un obbligo per il PM.

Oddio un obbligo? Ma siamo pazzi? Obbligare un giudice significa togliergli un pezzettino della sua arbitrarietà. Sacrilegio. Lesa Maestà.

Se c’è un obbligo, bisogna rispondere a qualcuno se non lo si rispetta, si è responsabili se lo si vìola. Responsabilità dei magistrati? Ma scherziamo?!


Il vero scandalo, il terrore puro è poi quell’ordine di precedenza nel fissare i ruoli d’udienza.

È quello il vero grimaldello nella discrezionalità dell’azione penale, che nella sua obbligatorietà permetteva impunemente ai giudici di scegliere nel mucchio, senza alcun criterio, quali reati perseguire.

E la sospensione dei processi è il necessario corollario, per evitare che questa rivoluzione portasse alla prescrizione dei reati minori, che invece così è stata sospesa, in attesa di una riforma più organica della giustizia.


Il problema è tutto lì: stanno cercando di mettere becco in quel meccanismo che, per quanto astrattamente corretto, è stato abusato a tal punto che i mafiosi escono impunemente dal carcere per decorrenza dei termini, i reati dei terroristi finiscono in prescrizione, i camorristi non vengono perseguiti per le discariche abusive perché i PM ritengono più utile prendersela con i collaboratori di Bertolaso se in piena emergenza non rispettano alla virgola la burocrazia delle discariche legittime, mentre il processo contro Bassolino corre allegramente verso la prescrizione.

Significa togliere ai giudici la possibilità di cercar fama facile arrestando i re o correndo dietro alle gonnelle delle veline.


Il dibattito sull’obbligatorietà dell’azione penale è eterno come il diritto e non avrà mai una soluzione univoca, perché troppe sono le varianti che la impediscono.

Certo è che in Italia si è dimostrato disastroso trasformarla in arbitrarietà dei PM, ed era ora che si mettesse mano al problema.

Imporre il giudizio immediato o fissare dei criteri per la trattazione dei processi è proprio un primo passo per iniziare a regolamentare legislativamente questo potere immenso che fino ad oggi lo Stato ha abdicato.

Si tratta di un potere troppo grande per lasciarlo del tutto in mano a dipendenti pubblici, spesso lavativi, spesso spinti da interessi confliggenti con il rispetto della legge, e soprattutto del tutto privi di responsabilità, personale o politica, per le loro azioni.


Lo Stato siamo noi. Siamo noi elettori che deleghiamo il nostro potere, ma lo deleghiamo con il voto, incaricando il Governo ed il Parlamento, non i giudici. Quelli sono come i parenti, te li becchi e te li tieni.

Ebbene, avere la mano dura contro certi reati, piuttosto che altri, magari depenalizzandoli, far funzionare la giustizia in un certo modo, anziché lasciarla allo sfascio, è un nostro potere che abbiamo delegato a questo governo.


Il programma era chiaro, l’atteggiamento del premier pure. Lo abbiamo scelto, gli abbiamo dato fiducia anche perché rivoluzionasse la giustizia e la magistratura (io soprattutto).

Che ora un CSM qualsiasi, o un sindacato di magistrati politicizzati (che poi è la stessa cosa) si permetta di mettere in discussione il nostro voto, è a dir poco antidemocratico e giustamente definito eversivo.

Non esiste al mondo che i giudici, soggetti solo alla legge e quindi al volere del parlamento, si possano permettere di criticare una legge in fase di approvazione, né tanto meno una volta approvata.

È di una gravità inaudita e in qualsiasi altro Paese civile, non soggiogato da anni di colpo di stato strisciante, come quello che abbiamo subìto in questi 15 anni, sarebbe stato punito con la cacciata immediata di quei magistrati.


Lo scontro lo hanno voluto loro, lo hanno cercato, lo hanno reso inevitabile, necessario.

Se questo serve a farci tornare ad essere un Paese civile con una Giustizia seria, era ora.

giovedì 26 giugno 2008

Aggiornamento su attiviamoci e diffondiamo

Ansa delle 16.35


Sospensione processi, Mancino: Csm parla con atti ufficiali


ROMA - "Il Csm parla solo attraverso i suoi atti ufficiali, non con personali interpretazioni": lo ha detto, in apertura della seduta odierna dell'Assemblea Plenaria, il Vice Presidente, Nicola Mancino. "Tento di presentare il Consiglio Superiore della Magistratura - ha continuato - come istituzione dialogante che colloquia col Governo corrispondendo puntualmente alle funzioni e alle prerogative che la Costituzione gli assegna. Non ho mai pensato, e neppure Voi, sono convinto e credo, che possiamo essere una terza Camera, come pure qualcuno ci rimprovera: già due - ha aggiunto Mancino - a parità di funzioni sono troppe. Una terza, con 26 componenti per quanto tutti autorevoli, presieduta dal Capo dello Stato è una invenzione di chi non vorrebbe un Csm autonomo, non collegato a maggioranze politiche, che, richiesto o non richiesto fa lo stesso, avanza una proposta in tema di ordinamento e di organizzazione giudiziaria, che formula un parere, ai sensi dell'art. 10 della legge istitutiva del 1958".
MANCINO RIBADISCE RICHIAMO RISERVATEZZA
In apertura della seduta odierna dell'Assemblea Plenaria, il Vice Presidente del Csm, Nicola Mancino ha ha lanciato un nuovo richiamo alla riservatezza e dunque a non rendere dichiarazioni da parte dei singoli a nome dell'intero Consiglio Superiore. "Già nella seduta di ieri - ha ricordato Mancino - ho accennato alle procedure: prevale, certo, nel ragionamento che ho svolto e sto svolgendo, la mia esperienza pregressa: su un argomento si nomina un relatore, il quale espone i punti essenziali, desumibili dalla questione all'ordine del giorno; sulla relazione si apre un dibattito, al termine del quale il relatore, se le opinioni espresse lo trovano concorde, presenta una ipotesi di risoluzione, su cui il plenum è chiamato ad esprimersi". "Se si rovescia l'impostazione - ha spiegato Mancino - non potremo evitare che una bozza di risoluzione, unilateralmente elaborata, si trasformi o venga fatta passare come la risoluzione definitiva, del resto, è avvenuto anche in questi giorni". "Torno a chiedere riservatezza: ieri ho parlato con toni alterati, e per fortuna (lo stile conta!) eravamo a seduta già tolta. Voglio precisare - ha specificato Mancino - che mi sono rivolto al Consigliere Roia avendo presente solo la dichiarazione da lui resa sabato scorso a Milano, ma non per rimproverargli d'aver diffuso il testo della bozza. Io non so chi l'ha diffuso. Qualcuno, però, l'ha fatto. Ora io chiedo al Consigliere Berruti, che è Presidente della Seconda Commissione, di disciplinare la riservatezza di cui devono essere circondate le discussioni in Commissione, e le eventuali sanzioni da adottare in caso di violazione". "Non se ne può più - ha proseguito - di questa prassi di far dire ai nostri atti o ai nostri documenti non il loro contenuto ma l'interpretazione che qualcuno vuole loro dare. Non posso nascondervi d'aver avuto una tentazione dovuta alla sensazione che, per quanto tu possa lavorare, studiare, approfondire, se il contesto continua ad andare a ruota libera, c'é una sola strada. Gli uomini, per me - ha concluso Mancino - sono tutti necessari, ma nessuno, proprio nessuno, è indispensabile".
BERSELLI, MANCINO SI DIMETTA DOPO INDISCREZIONI
"Il vicepresidente del Csm Nicola Mancino deve trarre le conseguenze di quanto sta succedendo e si deve dimettere. Sarebbe un atto dovuto di elementare sensibilità istituzionale". Il presidente della Commissione Giustizia del Senato, Filippo Berselli, se la prende con il vicepresidente del Csm per la fuga di notizie sulla bozza di parere negativo del Consiglio alla norma che blocca i processi, inserita nel decreto sulla sicurezza, considerata come "un'amnistia occulta". Berselli spiega che il problema non è "il merito del parere che è legittimo ed è previsto da una legge dello Stato del 1958" ma "le indiscrezioni che trapelano riportate da tutti i giornali che - precisa Berselli - screditano direttamente il presidente del Csm che è Capo dello Stato e ha la funzione di promulgare le leggi". "Si tratta - sostiene il presidente della Commissione Giustizia del Senato - di un atto di assoluta, gravissima scorrettezza istituzionale verso il Quirinale".Il presidente della Commissione Giustizia del Senato spiega che non gli basta apprendere dai giornali che "Nicola Mancino è infuriato per le indiscrezioni" finite sulle stampa e che "a questo punto deve trarre le conseguenze istituzionali" perché ha la responsabilità del Csm. "Lo screditamento in atto del Capo dello Stato - sostiene Berselli - non può lasciare indifferente Mancino e non basta che dica, come scrive qualche giornale 'se continua cosi' me ne vadò". "Che vuol dire 'se continua cosi' - commenta Berselli - non si può accettare un simile andazzo e attendere una prossima situazione, le dimissioni a mio avviso le deve dare subito". "Peraltro - osserva il presidente della commissione Giustizia del Senato - queste indiscrezioni non mettono in difficoltà la maggioranza, visto che il parere che viene dato per legge al ministro non è vincolante. Ma mettono in difficoltà il Quirinale perché non viene garantito il principio di riservatezza del Csm". "E se non viene garantito questo principio di riservatezza, che ci sta a fare Mancino?" insiste Berselli.

Attiviamoci e diffondiamo

Leggo dall' ADNKRONOS:

GIUSTIZIA: CSM, DIFFUSIONE BOZZA TURBA SERENITA'
LAVORI


Roma, 25 giu. (Adnkronos) - ''La divulgazione alla stampa di una prima bozza del parere, attualmente in discussione in Sesta Commissione e dunque non pubblico, sul decreto legge contenente 'misure urgenti in materia di sicurezza pubblica' ha il solo effetto di produrre confusione - essendo il testo del tutto provvisorio - e di turbare la serenita' dei lavori del Consiglio, impegnato, coerentemente con le proprie attribuzioni, in una doverosa e rispettosa interlocuzione con il Ministro della Giustizia e il Parlamento''.
Lo affermano, in seguito alle indiscrezioni di stampa sui lavori della Sesta Commissione del Csm, il presidente Prof. Mauro Volpi e i Consiglieri Dott. Livio Pepino e Dott. Fabio Roia, relatori designati per la redazione del parere sul decreto sicurezza.
''Non conosciamo la finalita' che ha animato tale divulgazione - prosegue la nota - ma, in ogni caso, riteniamo di dover rendere pubblico il nostro piu' vivo dissenso da tale iniziativa e, insieme, la nostra ferma intenzione di procedere in tempi rapidi, per quanto di nostra competenza, alla definizione del parere nel pieno rispetto delle regole consiliari''.
Prima di leggere questa velina scrivevo sul blog di Paraffo:
OT sul presunto pronunciamento del CSM:
Il CSM pare muova una critica giusta al cosiddetto salva-processi, andrebbe contro l'articolo 111 della costituzione (quello della giusta durata di un processo), a parte che la possibilità di non avvalersene riportata nella proposta potrebbe mettere lo stato al riparo da caterve di richieste di rimborsi, sono fondamentalmente d'accordo.
A questo punto dobbiamo chiedere al governo di pensare, di comune accordo col CSM anche un provvedimento che sospenda e condanni al risarcimento spese, quei magistrati che fanno si che i processi durino più del necessario...
Dite che è populista e demagogica come proposta, lo so, ma mi sembra una corretta risposta
Siamo nuovamente al discorso delle fughe di notizie e della corretta informazione.
Quanti oggi leggeranno le dichiarazioni del presidente Prof. Mauro Volpi e i Consiglieri Dott. Livio Pepino e Dott. Fabio Roia???
Quanti giornali le pubblicheranno?
Per una volta dovremmo approfittare noi del "rischio boomerang", anche nel caso la bozza venga confermata il fatto è abbastanza grave e va diffuso il più possibile.

mercoledì 18 giugno 2008

Il caso Litvinenko

Sul sito dell'On. Guzzanti il video integrale, da molti ritenuto addirittura inesistente, delle dichiarazioni di Litvinenko in presenza di Scaramella.

http://www.paologuzzanti.it/

Lo so non è forse un caso di stretta attualità, ma diffondetelo.


martedì 17 giugno 2008

Università e ricerca: gli indirizzi del Ministro Gelmini

Come sempre, il solerte Max ci mette al corrente dei passi del Ministro Gelmini.

(Avrete capito che ho un debole per lei, considerandola la miglior espressione della nuova politica italiana).

Qui sotto il discorso tenuto in Commissione Cultura della Camera dei Deputati, è un po' lungo ma leggendolo capirete quanto il Ministro sta facendo per la nostra Scuola:

1. Un metodo per il cambiamento

Signor Presidente,
onorevoli deputati,
siamo giunti alla seconda parte di quella duplice fatica cui facevo riferimento nel mio primo intervento di fronte alla Commissione.
Cambiano, oggi, le materie trattate, ma non cambiano i cardini del ragionamento che ho precedentemente condiviso con voi.

Istruzione, Università e Ricerca scientifica sono moduli distinti, ma rappresentano, insieme, l’infrastruttura del sapere e, come ogni infrastruttura, vincono solo se interconnessi l’uno all’altro.

La sfida decisiva del capitale umano e dell’innovazione si gioca a questo tavolo. Occorre riconoscere, innanzitutto, che l’Università e la Ricerca sono fattori indispensabili di sviluppo della nostra comunità nazionale. Eliminarne le criticità è strategico.

Occorre a questo proposito ricordare che nel recente passato il nostro sistema formativo, pur nei suoi limiti, era in grado di formare (ed esportare) capitale umano di eccellenza. Come recuperare questa capacità nell’attuale contesto sociale ed economico complesso e globalizzato?

Si prospettano due possibilità.

O una gestione più fortemente centralizzata del sistema universitario, con regole uguali per ogni ateneo, ogni professore, ogni ricercatore; oppure, prendendo atto delle diversità presenti tra i singoli Atenei e centri di Ricerca, porre le condizioni per valorizzarne la specificità.

La seconda opzione, analogamente a quanto avviene in molti paesi caratterizzati da sistemi universitari di eccellenza, ci sembra quella da sostenere.

Siamo chiamati, come istituzioni politiche e come società, ad un comune commitment per l’Università e Ricerca, riconoscendone il ruolo prioritario per la formazione della classe dirigente, come fa ogni grande Paese moderno.

La filosofia cui intendo informare l’azione del ministero, per questi motivi, non cambia. Si fonda sul trinomio autonomia, valutazione, merito, che è quanto l’Italia, oggi, si aspetta da noi.

Vorrei, prima di tracciare un quadro generale della situazione e formulare alcune prime proposte, aggiungere altre due considerazioni.

La prima, riguarda la leva legislativa.
La seconda, il ruolo dei giovani.

Nel corso di questi ultimi anni si sono venute stratificando una serie di norme, a volte contraddittorie, a volte di difficile interpretazione, che hanno volta a volta interrotto e
contraddetto ipotesi di riforma anche coraggiose proposte dai ministri che si sono via via succeduti, a partire da Antonio Ruberti, cui va il mio commosso ricordo, per finire con Letizia Moratti, autrice di una proposta capace di intervenire su alcuni snodi fondamentali.

Il mio impegno è dotare, entro il termine dei cinque anni di legislatura, il mondo dell’Università e della Ricerca di regole certe e condivise, testi unici che non siano la sommatoria di norme già esistenti, ma che al contrario eliminino “il troppo e 'l vano” (Dante, Paradiso, VI, 10 – 12) e liberino le ali dell’autonomia dal troppo piombo che ne impedisce il volo.

Né io né voi possiamo paragonarci a Giustiniano. Ma l’esempio di una attività legislativa che possa sfidare il futuro mi sembra ci debba essere caro.

Quanto al ruolo dei giovani, può sembrare pletorico ricordare quanto ricada su di loro il vizio di una società italiana ancora troppo ingessata, gerontocratica e refrattaria a riconoscere il merito.

Si pensi che, in Italia, solo il 15% dei dirigenti, l’8% dei professori associati e l’1% dei professori ordinari ha meno di 40 anni.

Vorrei che fossero proprio i giovani ad aiutarci a progettare il futuro del Paese, che è in fondo, soprattutto, il loro futuro.

Mi propongo di invitare al Ministero i giovani docenti e ricercatori a partecipare a un grande concorso di idee, ad aiutarmi a rendere realtà le idee migliori, a tradurle in pratica e a proporvele.

Ho intenzione di spalancare le porte dell’ EUR a quest’aria nuova, per investire davvero sui giovani talenti.

E’ un dato di fatto che i risultati del nostro lavoro saranno misurabili in un futuro non immediato. Mi sembra giusto chiamare a progettarlo chi ne sarà protagonista.


2. Il quadro d’insieme

Ho incontrato nei primi giorni di questo mio mandato, un numero notevole di persone ed istituti di eccellenza su cui l’Italia può contare.

Ma sappiamo tutti che il sistema dell’Università e della Ricerca presenta, accanto a situazioni che gareggiano alla pari con le migliori realtà estere, un quadro non confortante.

Nelle classifiche internazionali, i nostri Atenei arrancano.

Studenti, ricercatori e docenti provenienti dall’estero sono decisamente troppo pochi: e una ottima Università si distingue anche per un ambiente culturale internazionale.

La pronta adesione al “processo di Bologna” e la conseguente introduzione del tre più due, se ci ha consentito di aumentare il numero dei laureati, è messa da più parti sotto accusa per aver innescato un processo di licealizzazione prolungata e una proliferazione di corsi e indirizzi che non ha eguali negli altri paesi europei: 3200 in Italia, contro gli 800 della Germania.

Sul tre più due intendo, peraltro, proseguire una rigorosa attività di monitoraggio e continuare sulla strada intrapresa dai miei predecessori verso una razionalizzazione dei corsi.

Va anche rilevato che la formazione post laurea di terzo e quarto livello (dottorati e master), troppo spesso, diviene una sorta di area di parcheggio da cui pescare mano d’opera accademica a basso costo.

Il Fondo di Finanziamento Ordinario è basato in larghissima parte sullo “storico” e alimenta bilanci ingessati, senza che una percentuale significativa delle risorse sia destinata a premiare il merito e l’eccellenza.

Manca un collegamento stretto con il mondo del lavoro che dovrebbe caratterizzare molto più di quanto oggi avvenga le lauree triennali; si registra una scarsa valorizzazione delle forme di apprendistato professionalizzante finalizzato a garantire uno sbocco che sfrutti le competenze maturate. E non si può sottacere che, mentre gli
iscritti ai corsi di laurea umanistici e di comunicazione sono migliaia, si rileva tuttora una scarsa percentuale di iscrizioni a corsi di laurea scientifici.

Fin qui la fotografia dell’esistente. A noi il compito di trovare soluzioni adeguate per rilanciare la qualità degli studi e l’Università.


3. Le risorse

E’ un dato di fatto: la Ricerca è sottofinanziata. La percentuale di investimento in Ricerca è in Italia pari all’1.09% rispetto al Prodotto interno lordo contro una media Ocse del 2,26%. La percentuale di incremento annuo è del 2,70%. In Grecia è al 16,70%. In Estonia al 13%.

Con queste cifre, è difficilissimo, se non impossibile, competere.

Sarebbe suicida mantenere un’arretratezza così evidente nell’investimento più utile per la crescita di una Nazione e per la promozione sociale. Si pensi che delle 20 migliori Università, per risultati di Ricerca e didattica, 17 sono negli Stati Uniti. E gli Stati Uniti sono il Paese con il più alto tasso di mobilità sociale.

Se da un lato ci dobbiamo fissare la meta di aumentare le risorse a disposizione, occorre, da subito, imparare a spenderle meglio, vincolandole alla responsabilità, ai risultati conseguiti ed eliminando sacche di spreco o di spesa poco produttiva.

Possiamo chiedere al Paese uno sforzo finanziario aggiuntivo soltanto se garantiremo un rinnovamento dei metodi di spesa, vincolando cioè i finanziamenti al livello della didattica e della Ricerca, portando ad almeno il 20% del Fondo la quota destinata a premiare i migliori. Più risorse e più meritocrazia, questo sarà il nostro indirizzo.

Sulla leva finanziaria, ci sono due tipi diversi di interventi da fare, a seconda della provenienza pubblica o privata dei fondi.

Il primo intervento riguarda le risorse pubbliche. Siamo, in questo caso, con lo 0,58%, più o meno al livello di altri paesi. Ma è inammissibile il ritardo con cui i bandi vengono promulgati, inammissibile la lentezza con cui i risultati vengono valutati e il tempo in cui i contributi vengono corrisposti.

Erogare i fondi con mesi, se non con anni, di ritardo, significa uccidere il sistema. Ho intenzione di compiere uno sforzo prioritario per tagliare senza esitazione il cappio che strangola l’opera di tanti ricercatori. Dobbiamo dare un esempio di burocrazia efficiente. E’ essenziale fare di tutto per realizzare un sistema di distribuzione delle risorse rapido, giusto, equo.

Sul versante dell’investimento privato, le note sono invece in parte dolenti. Non solo le grandi imprese, salvo rare eccezioni, investono poco, ma il tessuto imprenditoriale italiano è caratterizzato da piccole e medie imprese, le quali fanno fatica ad accantonare fondi da investire per la Ricerca, nonostante una grande propensione all’innovazione registrata dalle statistiche.

Mi impegno a studiare, di concerto con i colleghi di Governo, meccanismi di agevolazione per le piccole e medie imprese che coordinino i loro investimenti. Crediti di imposta e defiscalizzazioni sono, assieme all’unione delle forze, e penso anche al ruolo delle Fondazioni bancarie, del no-profit, delle associazioni di categoria, la chiave per ridare risorse alla Ricerca.

Ma il problema delle risorse riguarda anche le Università. L’ho precedentemente accennato.

Si è data sì l’autonomia, senza però chiedere conto dei risultati.
Sono troppi i casi di spesa senza controllo, di sforamento dei tetti previsti riguardo, ad esempio, la quota massima del 90% degli FFO per quanto riguarda il personale.

Alcuni Atenei, inoltre, versano in una situazione di avanzata esposizione finanziaria. Siamo pronti ad aiutarli, secondo piani pluriennali concordati di rientro dall’indebitamento, vincolandoli però rigorosamente ad una gestione responsabile e virtuosa della spesa.

Non è mia intenzione limitare in alcun modo l’autonomia degli Atenei, ma desidero, assieme a loro, trovare soluzioni accettate e condivise, percorsi che recuperino i casi di dissesto con tempi e risorse certe, fissare regole altrettanto certe che consentano di liberare risorse per premiare la qualità e l’eccellenza. Occorre mettere in atto un chiaro patto di stabilità, individualizzato per ogni singolo Ateneo, così da valorizzare ogni singola specificità.

4. Le sfide

E’ mia intenzione, in questa relazione, affrontare solo alcuni dei punti che riguardano le linee di governo, rinviando a momenti di approfondimento successivi le altre.

Trovo che focalizzare la relazione su alcuni temi possa lasciare uno spazio maggiore al dibattito e del resto il campo è talmente vasto da esigere una prima selezione di argomenti.

Dobbiamo, infatti, affrontare con coraggio alcune sfide impellenti: autonomia e responsabilità, valutazione, reclutamento, Welfare studentesco, governance, eccellenza, riforma degli istituti di Ricerca.


5. Autonomia e responsabilità.

La prima considerazione da fare, è che il sistema dell’Università e della Ricerca si presenta estremamente variegato. Atenei di diversa propensione e dimensione, centri di Ricerca pubblici e privati, consorzi.

Sarebbe fuorviante cercare di ridurre questo patrimonio di diversità a un tutto unico. Dobbiamo, al contrario, cercare di fare della diversità una forza.

Senza dubbio l’autonomia ha un valore fondante. Costitutivo e, direi quasi, antropologico. La Constitutio Habita, primo statuto della prima Università, l’Alma Mater Studiorum di Bologna, concesso da Federico I nel 1158, giusto 950 anni fa, riconosce la libertà della Ricerca e fa dell’Università una libera societas di allievi presieduta da un maestro.

La carta costituzionale all’articolo 33, comma 6, recita:
"Le istituzioni di alta cultura, Università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato"

Non intendo, in alcun modo, conculcare questa autonomia.
Anzi, vorrei che insieme la rendessimo più piena, a patto che la stessa autonomia diventi più responsabile.

In questi anni si è riconosciuta l’autonomia alle Università, senza coniugarla con il richiamo alla responsabilità delle scelte. Responsabilità significa la possibilità di essere
premiati o sanzionati per le scelte rispettivamente vincenti o sconvenienti che si sono operate.

Richiamo il mondo dell’Università a questa sfida della responsabilità, che so essere da loro già avvertita come cruciale per il rilancio del sistema.

Lavorerò per un sistema competitivo. Ma per chiarire cosa intendo per competizione, voglio affidarmi alle parole di Dario Antiseri: “Quando noi parliamo di competizione spesso abbiamo paura di questa parola, perché la competizione è guerra; tuttavia il progresso scientifico si ha perché la Ricerca scientifica è una competizione serrata tra idee. Pensate alla battaglia tra copernicani e tolemaici, tra arbitralisti e meccanicisti in
biologia. La scienza va avanti attraverso teorie e confutazioni, va avanti tra proposte di teorie e critiche a queste teorie. Non è razionale colui che difende la sua teoria ad ogni costo”... “Quindi è la competizione ad animare la scienza, la democrazia e il mercato e chi non vuole la competizione ha scelto di bloccare il mutamento. Del resto la parola cumpetere vuol dire cercare insieme (petere, cercare, cum insieme) la soluzione migliore in modo agonistico”.

In tal senso avanzo una prospettiva di lavoro: la natura pubblica del sistema non presuppone la natura statale dei soggetti che vi partecipano. E’ un punto acquisito anche dal dibattito sulla parità scolastica, che a maggior ragione ritengo di proporre per l’Università.

Dunque, per un sistema che sia veramente e virtuosamente competitivo, l’approdo da auspicare è la parità delle condizioni finanziarie delle strutture pubbliche e private che rispettino alcuni severi requisiti, evitando di relegare l’iniziativa privata per lo più in spazi residuali, destinati magari alla creazione di aree di eccellenza, ma anche di privilegio sociale.

Ovviamente, non hanno spazio nella mia concezione esempi di esamifici che possano spuntare, e che in parte sono spuntati, verso i quali l’atteggiamento del Ministero sarà di assoluto rigore.

Per far questo, dobbiamo innanzitutto elevare i criteri di accreditamento delle strutture universitarie, sulla base di alcuni parametri oggettivi e certificabili, quali le esigenze del territorio, la capacità di autofinanziamento, l’adeguatezza dei corsi di laurea rispetto agli obiettivi formativi, la composizione del corpo docente, l’idoneità tecnica delle strutture.

6. Valutazione e trasparenza.

Per poter premiare le Università virtuose secondo il principio del merito e della responsabilità ed incoraggiare quelle meno virtuose all’adozione di politiche migliori, è necessario affrontare con efficacia il problema della valutazione.

Anzitutto, occorre dire che intendiamo valutare i risultati più che le procedure, come nello spirito della delivery unit concepita da Tony Blair.

La normativa in tema di valutazione è ancora in uno stato di incertezza.

Il precedente governo ha istituito l’ANVUR – Agenzia Nazionale di Valutazione - (DPR 21.02.08 n. 64), che dovrebbe sostituire il CNSVU – Comitato Nazionale di Valutazione del sistema Universitario - e il CIVR – Comitato di Indirizzo per la Valutazione della Ricerca. Ma l’ANVUR non può ancora diventare operativa, per via dei rilievi che il consiglio di Stato ha mosso all’agenzia.

La stessa Corte dei Conti, peraltro, ne ha registrato con riserva il regolamento. L’ANVUR è stata concepita come una costosissima struttura ad alto tasso di burocrazia e rigidità, destinata a controllare anche i più piccoli meccanismi e procedure, caricata di eccessivi compiti che non potrebbe svolgere se non in tempi molto lunghi. Non è ciò di cui abbiamo bisogno.

Occorre, dunque, rivedere la disciplina dell’ANVUR, al fine di assicurare al mondo dell’Università e della Ricerca un sistema integrato di valutazione, che vincoli il finanziamento ai risultati, incentivando l’efficacia e l’efficienza dei programmi di innovazione e di Ricerca, la qualità della didattica, lo svolgimento di corsi in lingua Inglese, la capacità di intercettare finanziamenti privati ed europei, il tasso di occupazione dei laureati coerente col titolo di studio conseguito.

In questo quadro di valutazione dobbiamo preservare la specificità di un sistema variegato. Alcuni criteri sono applicabili a tutte le facoltà o corsi di laurea, altri no. Esistono esperienze internazionali consolidate, paradigmi riconosciuti dalla comunità scientifica. Ci rifaremo ad essi, cercando la condivisione del mondo accademico.

Nel frattempo, però, non è possibile lasciare né le Università né gli Enti di Ricerca, destinatari di finanziamenti pubblici, senza strumenti di valutazione. Per cui è allo studio una proroga degli organismi vigenti.

Inoltre, per la valutazione dei risultati didattici e di Ricerca pensiamo ad un doppio binario.
Oltre alla doverosa valutazione che verrà operata a livello centrale dall’Agenzia indipendente, occorre incoraggiare quella forma di valutazione plurale, spontanea, quotidiana, che viene operata dagli studenti e dalle famiglie ai fini della scelta dell’Università da frequentare, così come viene operata dalle imprese e dalle fondazioni quando scelgono l’Ateneo al quale indirizzare finanziamenti o richieste di collaborazione.

Questa forma di “valutazione dal basso” è essenziale. Affinché sia possibile, è necessario introdurre regole di trasparenza e pubblicità. Le singole Università dovranno fornire sui loro siti web, come avviene in gran parte del mondo anglosassone, i dati sugli sbocchi professionali dei loro studenti, sulla produzione scientifica annuale dei loro docenti e ricercatori e sulla customer satisfaction degli studenti, un monitoraggio che già diversi Atenei, statali e privati, provvedono a compiere.

Sappiamo tutti che solo con la trasparenza e l’accessibilità alle informazioni può affermarsi un sistema pienamente meritocratico.


7.
Reclutamento.

Non voglio neppure sottrarmi ad una prima riflessione sul reclutamento. Anche perché, nei prossimi cinque anni, è previsto un ricambio del 47% del corpo docente.

Le regole che stabiliamo ora, signor Presidente, onorevoli deputati, sono destinate a influire sul sistema universitario per i prossimi venti anni e a determinarne le sorti.

Due sono le anomalie italiane. Da una lato l’anzianità dei professori ordinari e associati (soltanto l’8% dei professori associati e l’1% dei professori ordinari ha meno di 40 anni). Dall’altro lato, i ricercatori sono pochi e inadeguatamente retribuiti: entrambi questi dati dovranno essere portati nei prossimi cinque anni vicini alla media europea.

Certamente dobbiamo prendere coscienza che non è possibile lasciare un’intera generazione ai margini del sistema della Ricerca e dell’Università.

Non possiamo permetterci di rappresentare un’anomalia per il mondo industrializzato, non possiamo permetterci un’Università che favorisca le progressioni di carriera locali piuttosto che l’ingresso di forze nuove.

Inoltre non possiamo permetterci un sistema duplicemente impermeabile, rispetto ai giovani studiosi italiani e rispetto agli studiosi stranieri.

L’area dei ricercatori e dei dottori di Ricerca, quella dove si dovrebbe formare il corpo accademico, è ristretta. A fronte di circa 38.000 professori, più o meno equamente ripartiti tra ordinari e associati, ci sono 23.000 ricercatori: il sistema è più simile a un cilindro che ad una piramide.

Quanto ai dottori di Ricerca da noi ce ne sono circa 16 per ogni 100.000 abitanti, contro i 50 della media europea.

Sul fronte dei ricercatori, nella finanziaria del 2007 è stato previsto un finanziamento di 40 milioni di Euro per il 2008 e 80 per il 2009 per coprire un congruo numero di posti. Il provvedimento è subordinato, però, all’emanazione di un regolamento, che tuttavia non ha visto ancora la luce, in quanto gli atti sinora presentati nella scorsa legislatura hanno ricevuto il parere negativo da parte della Corte dei Conti.

Poiché i bandi debbono essere emanati entro il giugno 2008, stiamo intervenendo urgentemente per scongiurare l’eventualità di bloccare l’accesso alla carriera accademica di tanti giovani e di lasciare i fondi congelati.

Così come intendiamo prolungare sino al 30 di novembre i bandi per i concorsi da ordinario e associato.

Mi auguro possa essere un obiettivo condiviso, anche in questo campo, dare in futuro certezze che sono, purtroppo, venute a mancare.

Poiché la retribuzione dei ricercatori è troppo bassa rispetto alla media Europea e alla media Ocse, ciò rende il ruolo meno appetibile da parte dei giovani di talento.


Occorre investire risorse perché i ricercatori universitari siano in numero maggiore e siano meglio pagati.

Da pochi giorni abbiamo reso operante l’emendamento del senatore Giuseppe Valditara che prevede l’aumento di 240 euro mensili per le borse di dottorato.

L’intervento di adeguamento si affiancherà ad una riforma del dottorato, che vogliamo improntata alla riduzione del numero dei corsi, ad un carattere più intensivo di Ricerca, ad una più radicale internazionalizzazione.

E proprio come fanno i grandi sistemi internazionali, favoriremo in tutti i modi i passaggi dal mondo dell’impresa all’Università e viceversa, per evitare che ci siano ancora sacche di dottori di Ricerca anziani e ricercatori che il sistema non è in grado di assorbire.

Quanto alle nuove regole di reclutamento per professori e ricercatori, pensiamo a procedure snelle, credibili, che assicurino meritocrazia e autonomia dei singoli Atenei.

Ne discuterò a breve con il CUN e con gli organismi interessati e mi limito qui ad indicare alcune linee di indirizzo.

Occorre una verifica nazionale di idoneità riconosciuta da parte della comunità scientifica nel suo complesso. All’interno di una lista di idonei, le Università sceglieranno autonomamente colui che ritengono lo studioso più capace nella produzione scientifica, più adatto a richiamare finanziamenti dalle imprese e/o iscrizioni da parte degli studenti.

Nella lista di idonei dovranno essere compresi, tramite regole di valutazione e riconoscimento dei titoli internazionali, anche gli studiosi che lavorano all’estero, italiani o stranieri.

Ciò determinerà una crescente internazionalizzazione dell’Università italiana, che sarà più permeabile alle energie di quanti, italiani e non, lavorano all’estero, anche sbarazzandosi di tetti che, in ragione della scelta decisa verso l’autonomia, non hanno ragione di esistere.

Il sistema meritocratico e di trasparenza con il quale saranno erogati i fondi pubblici, basato sui risultati di Ricerca e di didattica, indurrà necessariamente i singoli atenei ad operare scelte responsabili e scoraggerà il più possibile azioni clientelari.

Questo sistema di reclutamento in due fasi (attribuzione dell’idoneità su base nazionale e scelta responsabile del docente da parte del singolo ateneo) si richiama all’impostazione della riforma di Letizia Moratti, che non ha purtroppo avuto attuazione nella precedente legislatura e che ritengo opportuno, invece, applicare.

Proprio in base al principio dell’autonomia responsabile, è mia intenzione lasciare le Università libere di chiamare, nei propri ranghi, anche docenti che non provengano strettamente dal mondo accademico e le cui caratteristiche rappresentino un valore aggiunto per gli Atenei e per i corsi di laurea.

Si tratta di un tema delicato ed esposto a rischi. Per questo, i meccanismi di selezione saranno comunque rigorosi.

Il merito e la responsabilità informeranno non soltanto il meccanismo di reclutamento, ma concorreranno anche a determinare una parte della retribuzione del professore e del ricercatore.

Il contratto nazionale fisserà solo la retribuzione di base, il resto sarà il frutto di una trattativa tra Atenei, docenti e ricercatori fondata su criteri meritocratici.

8.
Governance

La parola chiave per il riassetto del sistema universitario italiano è Governance. Come tanti termini inglesi di uso comune, anche questo ha un cuore antico, collocato nella civiltà mediterranea.
L’etimologia latina di governance (“guberno”, “gubernatio”) richiama l’idea della guida, del governo della nave in mare, della responsabilità di usare il timone secondo le aspettative di chi è a bordo.

Il termine rimanda, per certi versi, anche all’idea della capacità di rispondere delle proprie scelte, della verifica, del controllo. Questo principio deve ispirare tutto il mondo accademico, in tutti i suoi aspetti, da quelli scientifici a quelli didattici, da quelli organizzativi a quelli finanziari.

La sfida della governance è la sfida dell’autonomia di governo responsabile degli istituti universitari. So che i Rettori delle Università tengono particolarmente a questo tema. E libere associazioni di Università, quale ad esempio Aquis, hanno sviluppato proposte e ragionamenti di grande interesse, che è mia intenzione approfondire e sviluppare.

Una
governance responsabile si basa su grande libertà di organizzazione; sul passo indietro di una burocrazia statale che determini regole rigide, come troppo spesso è avvenuto, anche recentemente; sull’accentuata individualizzazione dei rapporti contrattuali che consente di valorizzare il merito di chi fa Ricerca e didattica e che rende gli atenei direttamente responsabili delle loro scelte.

Una governance moderna richiede l’introduzione di nuove figure, in grado di garantire il successo organizzativo degli Atenei e indirizzate a reperire i finanziamenti esterni.

Ritengo che gli atenei debbano essere lasciati liberi di avvalersene, rimuovendo ogni eventuale ostacolo legislativo alla loro libera autoorganizzazione e limitando il ruolo dello Stato alla fissazione di alcuni paletti che rispettino la natura di “societas” dell’Università e garantiscano, a tutta la collettività, un controllo rigoroso e trasparente.

9. Il Welfare studentesco

Mi piacerebbe che le Università fossero sempre più comunità vive e stanziali di studio e Ricerca, dove studenti, docenti e ricercatori si arricchiscano reciprocamente.

Occorre incoraggiare la crescita di queste comunità, con la creazione di nuovi collegi per studenti fuori sede, disincentivando lo scandaloso e crescente sfruttamento degli studenti spesso costretti ad affitti elevatissimi, fuori mercato.

Penso ai campus, modellati sulle recenti esperienze di Milano, Catania, Bologna, Torino, Pavia.
Iniziative sorte grazie alla partnership con le Regioni in primis. Penso anche, più modestamente, alle residenze universitarie.

In modo particolare su questa materia desidero confrontarmi con il Consiglio Nazionale degli Studenti Universitari, valutando suggerimenti e proposte.

La mia stella polare per la creazione di un nuovo Welfare studentesco è nell’Articolo 3 e nell’articolo 34 della Costituzione. L’articolo 3, in base al quale “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”; e l’articolo 34 secondo cui “i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”.

In cinquanta anni, questi obiettivi non sono stati raggiunti, se non parzialmente. Alcune regioni italiane hanno saputo compiere, in questo campo, grandi sforzi e conseguire buoni risultati.
Occorre far tesoro di queste esperienze e continuare su questa strada.

Anche in tal caso ritengo urgente attivare un coordinamento con le Regioni e gli Enti locali che porti ad una maggiore considerazione dello studente, che non è un problema ma una risorsa, soprattutto per le città universitarie.

Al fine di aiutare gli studenti, dobbiamo incentivare la pratica dei prestiti d’onore, rendendo l’erogazione più facile e di maggiore entità.



10. Eccellenza

In Italia vantiamo Scuole Speciali che rappresentano centri di eccellenza: la Normale e la Sant’Anna di Pisa, la Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati, l’Istituto di Scienze Umane di Firenze, l’Istituto Universitario di Studi Superiori di Pavia, la Scuola di Alti Studi IMT di Lucca.
Tali Istituti stanno operando bene, mostrando i risultati che possono essere raggiunti quando le parole autonomia e responsabilità sono perfettamente coniugate.

Lo strumento delle cosiddette Scuole a Statuto Speciale rappresenta una leva per l’eccellenza. L’Italia ha un disperato bisogno di eccellenza, di ritornare ad essere capitale di cultura e innovazione.


Queste realtà erano state “messe a sistema” da Letizia Moratti, chiamate intorno a un tavolo che purtroppo, da due anni, non è stato più convocato. Ritengo invece quel tavolo strategico per il Ministero e per tutto il mondo universitario, ed è mia intenzione riattivarlo immediatamente.

Dobbiamo, soprattutto, proiettare queste realtà ai vertici delle classifiche internazionali, dobbiamo, sul loro modello, stimolare la nascita di altri poli di eccellenza nelle varie parti del paese e specialmente nel Mezzogiorno, realtà che sappiano coinvolgere consorzi universitari, fondazioni, centri di Ricerca e attrarre fondi privati.

Dobbiamo fare di queste realtà il vivaio da cui poter attingere la classe dirigente del paese. Le Grandes écoles francesi, le Università di Oxford e Cambridge, gli Atenei della Ivy League sono esempi cui guardare e a cui trovare dei corrispettivi.

La pubblica amministrazione, innanzitutto, ha bisogno dei giovani formati in queste scuole.

Abbiamo avuto, nel recente passato, uno splendido esempio che ha saputo coniugare merito e impegno al servizio del Paese. Mi riferisco al famoso primo corso/concorso per dirigenti pubblici, promosso da Sabino Cassese ormai più di 10 anni fa, che attraverso una selezione durissima ha regalato alla pubblica amministrazione alcuni dei suoi migliori dirigenti.



11. Un ruolo per la Ricerca

Sul capitolo dedicato alla Ricerca intendo proporre alla Commissione alcuni punti fondamentali: i compiti del MIUR, il Piano Nazionale, la rivisitazione degli Enti di Ricerca, il ruolo di Ricercatori e Tecnologi e il trasferimento tecnologico.

Intendo innanzitutto rivendicare e attuare un forte ruolo di regia e di coordinamento del MIUR su tutte le attività di Ricerca che si svolgono o si progettano nel sistema paese. E delle sue connessioni con la Ricerca internazionale, in primo luogo europea. Per rendere competitiva la Ricerca bisogna innanzitutto mapparla, razionalizzarla e darle coerenza. Servono quindi una riorganizzazione della Ricerca, una razionalizzazione delle risorse, l’istituzione di nuovi criteri di valutazione, il coordinamento e la finalizzazione verso obiettivi strategici.

Per fare questo, occorre rileggere coraggiosamente la frammentazione della Ricerca italiana, della sua gestione, del suo controllo e del suo finanziamento. In senso orizzontale, presso diversi dicasteri e settori: Università, Enti di Ricerca speciali pubblici e privati, dicasteri come, in particolare, salute, ambiente, agricoltura, attività produttive, beni culturali; e in senso verticale tra Europa, Stato, Regioni e altre Istituzioni locali.

Mi limito ad un solo esempio, che riguarda le ricerche marine.

Oggi presso il MIUR oltre alla Ricerca universitaria sono presenti a svolgere attività di Ricerca anche marina il CNR (Consiglio nazionale delle ricerche), l’INGV (Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia), l’OGS (Oceanografia e Geofisica Sperimentale), la Stazione Zoologica, e presso altri ministeri l’ENEA, l’ICRAM (Istituto centrale per la Ricerca scientifica e tecnologica applicata al mare), l’APAT (Agenzia per la Protezione dell'Ambiente e per i Servizi Tecnici) e una serie di Consorzi di Ricerca per la pesca, una sfilza di Istituzioni regionali per lo più collegate alle ARPA e da ultimo alcune Società scientifiche che hanno ottenuto finanziamenti per svolgere Ricerca in prima persona, “appoggiandosi” alle Università e/o alle cooperative. Tutti questi attori si muovono indipendentemente e senza alcun coordinamento sia a livello nazionale che internazionale.

Non si tratta certo di togliere o avocare competenze di merito, di portafoglio e di settore, o legami col territorio, o di interferire rispetto, ad esempio, ad interventi speciali dettati da particolari condizioni.

Si tratta però di porre fine a duplicazioni, ridondanze, incoerenze di indirizzo e di obiettivo. Occorre valutare realisticamente gli effetti negativi di queste dinamiche in termini di pura e semplice competitività del sistema, in ultima analisi di sostenibilità economica.

Fino ad oggi, è venuto a mancare, volutamente o meno, questo ruolo trasversale di coordinamento attivo da parte del MIUR, che è, assieme alla promozione della Ricerca, la sostanza stessa della sua missione in questo campo.

Lo stesso lavoro di sistematizzazione va compiuto, innanzitutto, tra gli Enti di Ricerca italiani. Per questo, ho particolarmente apprezzato l’idea di una indagine conoscitiva avanzata dall’on. Antonio Palmieri, che servirà a me e al Parlamento a fare chiarezza e ad individuare i rami secchi.

E’ mia intenzione procedere peraltro alla completa spoliticizzazione degli Enti di Ricerca.

I loro futuri vertici saranno nominati in una rosa proposta da appositi search committee di livello internazionale e rigidamente vincolati, nel loro mandato, al raggiungimento di obiettivi.

Vorrei richiamare la vostra attenzione sulla competenza e autorevolezza che dobbiamo chiedere, e dare, ai nostri ricercatori e ai nostri tecnologi.

La Commissione europea ha approvato nel marzo 2005 una raccomandazione riguardante la “Carta europea dei ricercatori” e un “Codice di condotta per l'assunzione dei ricercatori”, contenente principi generali e prescrizioni in materia di reclutamento, progressione di carriera, diritti e doveri, mobilità, che gli Stati membri sono invitati a recepire nei rispettivi quadri normativi nazionali, al fine di “offrire ai ricercatori dei sistemi di sviluppo di carriera sostenibili in tutte le fasi della carriera” e perché “i ricercatori vengano trattati come professionisti e considerati parte integrante delle istituzioni in cui lavorano”.

In Italia siamo lontanissimi dal recepimento della raccomandazione comunitaria. La situazione è disastrosa, tanto dal punto di vista dello status giuridico, quanto da quello del reclutamento e della retribuzione.

Proseguirò il programma di rientro dall’estero dei cervelli, ma soprattutto mi sembra essenziale impedire che fuggano e, anzi, strappare all’estero i cervelli migliori offrendo loro prospettive.

La concorrenza tra sistemi Paese e l’internazionalizzazione diventano parole vuote, se non si danno ai nostri ricercatori e tecnologi la dignità necessaria a sedersi nei club internazionali. E non gliela possiamo dare, se il loro status giuridico ed economico e i loro meccanismi di reclutamento e valutazione non consentono loro di guardare negli occhi i loro colleghi.

Uno dei miei obiettivi è, pertanto, recepire la raccomandazione europea.

Ho già sviluppato, a inizio del mio intervento, il tema delle risorse, che entra a pieno titolo in una rigorosa riorganizzazione della macchina pubblica.

Vorrei toccare altri due punti, che riguardano il Piano Nazionale della Ricerca e il trasferimento tecnologico.

Sul primo, avremo tempo e modo di confrontarci in maniera proficua e serrata. Da un primo giro di tavolo con gli stakeholder, emerge chiara l’esigenza di puntare su alcuni settori di eccellenza e su alcune specificità italiane.

Soprattutto, è chiara la necessità di puntare a progetti di Ricerca di medio-lungo periodo, che possono essere affrontati solo dal sistema pubblico, ma che nel loro percorso hanno ricadute immediate sulla conoscenza.

Le risorse che i vincoli di bilancio concedono devono spingere alla loro migliore allocazione possibile e certamente con attenzione prioritaria a quelle tecnologie definite abilitanti: tra queste le biotecnologie, le nanotecnologie, ICT (Information Comunication Technology), e su due settori decisivi: l’agroalimentare, che rappresenta una delle punte di lancia del Made in Italy, cui si offre l’opportunità di Expo 2015 e la Ricerca sulle fonti energetiche rinnovabili.

Per quanto riguarda le linee di indirizzo, il Ministero intende promuovere un ruolo attivo della Ricerca italiana nell’ambito della ETP – European Technology Platform – costituitasi su incoraggiamento della Commissione Europea, al fine di individuare gli obiettivi strategici di medio e lungo termine per la Ricerca europea e per attuare gli obiettivi della rinnovata strategia di sviluppo.

Le ETP sono guidate dai rappresentanti del mondo industriale e produttivo delle filiere di interesse e coinvolgono tutti gli stakeholder di ciascuna filiera sia pubblici che privati. In alcuni settori e per alcune delle piattaforme europee si è realizzato un corrispettivo italiano.
L’obiettivo è quello di identificare priorità di Ricerca e sviluppo tecnologico mirate all’innovazione del settore a livello nazionale.

A partire dal 2006 sono stati costituiti, nel nostro Paese, Piattaforme Tecnologiche Italiane (PTI) o gruppi di supporto a sostegno del KBBE (Knowledge-Based Bio-Economy). In questa fase è molto importante promuovere le PTI, illustrarne gli scopi e le finalità per creare coordinamento e sinergie tra livelli di Ricerca sovraregionali.

Ho spesso citato, nel mio intervento, e citerò in seguito, il rapporto tra pubblico e privato. La loro alleanza è possibile e auspicabile.

Voglio però essere chiara. Non si tratta, come qualcuno può pensare, di “piegare la Ricerca al mercato”. Si tratta di comprendere, innanzitutto a livello filosofico e concettuale, che la Ricerca, pubblica e privata, ha un ruolo sociale. Risolve i problemi del cittadino, ne migliora la vita.

Occorre ricordare che tutti i processi di valorizzazione dei risultati della Ricerca, mediante meccanismi che definiamo di technology transfer, possono generare valore aggiunto per chi li ha prodotti, creando quindi un volano economico per finanziare la Ricerca stessa, come avviene nei migliori centri anglosassoni ed essere inoltre un motore di innovazione per chi li sfrutta, che per essere competitivo necessita di poter
attingere ai risultati della ricerca no-profit.

Affinché il processo possa avvenire in modo efficace, sono necessarie normative chiare per la definizione dei diritti di proprietà industriale, con meccanismi di incentivazione per i ricercatori che producano invenzioni, cultura e formazione appropriata; se il ricercatore non ha questa cultura non potrà nemmeno valorizzare i risultati della sua ricerca (tipico il frequente caso del ricercatore che pubblica prima di brevettare); occorrono strutture qualificate ed adeguate, i cosiddetti TTO (Technology Transfer Offices), presso i principali centri di ricerca, che possano gestire in modo professionale tutte le fasi del technology transfer (dalla brevettazione alla contrattualistica, dal marketing al business development, alla definizione di un eventuale progetto industriale ecc…); occorre favorire la creazione dei cosidetti “incubatori”, cioè strutture fisicamente inserite all’interno di alcuni centri di Ricerca, dove le nuove iniziative possano nascere ed essere accompagnate in un processo di sviluppo e consolidamento, e dove realtà industriali già avviate e consolidate possano trovare una sede adeguata che favorisca l’interazione con masse critiche di ricerca in grado di dare maggiore competitività e favorire il technology transfer.

In Italia c’è ricerca, ci sono risorse private, finanziarie e industriali, che potrebbero e vorrebbero investire nelle biotecnologie, nella biomedicina, nelle nanotecnologie etc,.

Ma non c’è una cultura e una struttura per il trasferimento tecnologico (cultura brevettuale, marketing, capacità di elaborare progetti e business plan condivisi tra tecnici e potenziali finanziatori, etc), non c’è un’estesa capacità di dialogo tra i due settori.

Un ruolo importante nel dialogo tra Ricerca, industria e mercato lo possono giocare due elementi già presenti sullo scenario: i progetti congiunti tra Enti di Ricerca e industrie, i parchi e i distretti tecnologici.

I distretti e i parchi tecnologici costituiscono in teoria luoghi privilegiati per alimentare la filiera dell’economia della conoscenza, perché mettono a contatto tutti gli attori e i momenti del meccanismo di generazione di valore economico a partire dalla Ricerca: la Ricerca di base, la Ricerca applicata, l’industria, il territorio.

Prevedono in genere infrastrutture tecnologiche centralizzate e disponibili e servizi per assistere le varie fasi: servizi per fund rising, competenze per il business planning, marketing, consulenza legale, brevettuale, aziendale.

Sono quindi il laboratorio ideale per coltivare e realizzare l’applicazione della Ricerca e la sua valorizzazione economica.

Nella formazione post laurea, di terzo e quarto livello, si dovrebbero individuare con chiarezza percorsi per creare manager specializzati in questa direzione.

Conclusioni

Signor Presidente,
onorevoli deputati,
so di non essere stata breve e, nonostante ciò, di non aver toccato tutti gli argomenti che mi premevano. Mi importa, al di là di un carniere di argomenti, aver fornito un metodo di lavoro, alcuni principi e alcune priorità di azione di Governo.

Il filo rosso che ho cercato di utilizzare per tenere insieme i miei ragionamenti, oltre ai concetti chiave di autonomia, valutazione, merito, semplificazione legislativa e centralità dei giovani, si chiama futuro del Paese.

Ciascuno di noi è chiamato, nell’ambito del proprio ruolo istituzionale, quale che sia l’orientamento politico di riferimento, a scrivere la propria parte e a scriverla insieme.

Sono certa che questa Commissione contribuirà autorevolmente alla realizzazione di questo fine comune attraverso un confronto continuo e costruttivo.

lunedì 16 giugno 2008

Qui si fa il PDL o si muore

Nel mio periodo di riposo dal blog continuo a tenermi informato e oltre ai giornali leggo anche altri "commentatori" (http://www.netvibes.com/poplib ).
Mi sono imbattuto in due post apparentemente distanti di argomento ma che mi hanno fatto pensare:

Due citazioni :

"Ma una cosa è certa: dobbiamo, nel nostro piccolo, dare una mano, se non altro facendo sapere, allo schieramento che sosteniamo, che acca' nisciuno è fesso!"


"Anche perché - questo è più di un avvertimento, è una promessa! - ove i dirigenti di Forza Italia e An, un domani dovessero impazzire; e per questo motivo (o altro) manifestassero - che ne so - l'intenzione di rallentare o stoppare il processo di costituzione del Popolo della Libertà: andrebbero incontro a sicuri problemi.

Tipo: alcune centinaia di trentenni (e ventenni) - che gravitano attorno a per il Popolo delle Libertà e a Tocqueville -, sarebbero pronti a manifestare e a protestare giorno e notte, sotto le sedi di Forza Italia e di An."

Entrambe le analisi dei miei due esimi colleghi sono condivisibili ed approfondite.

Entrambe paventano un rischio: il rallentamento o ancor peggio lo sgretolamento del PDL.

Come più volte ho sottolineato sono un "novellino" per quanto riguarda la politica e forse questa mia "ingenuità" mi ha portato a credere fermamente nel progetto del PDL (trovando nell'On. Giovanardi un esponente limpido e sempre coerente, aperto e disponibile).

Qui nella mia zona, con amici delle altre forze politiche che "dovrebbero" costituire il PDL, abbiamo iniziato ad operare perché la nascita fosse effettivamente reale e, a questo punto con fortuna, ho trovato voglia di collaborare da parte di quasi tutti, abbiamo fatto riunioni, gazebo, aperitivi sempre in nome del PDL.

Ognuno ha dato la propria disponibilità (nonostante malanni, famiglie...).

Ora, a due mesi dalle elezioni ancora tutto tace (o almeno così pare vogliano farci capire), in realtà già si sentono le prime avvisaglie di battaglie interne, di tentativi di far passare senza troppo clamore le liste per le prossime amministrative e farci partecipare a giochi fatti.

Ma come?
Il partito unitario?
Il popolo della libertà è temporaneamente "in libertà"?

Il timore che a livello locale si giochi verso una forma di "annessionismo" (se non proprio di effettivo "colonialismo") è tangibile.

Allora deve arrivare forte un segnale alle direzioni centrali:

"Il POPOLO della libertà vuole diventare un soggetto vero, reale. I piccoli "poltronai della libertà" devono essere a servizio del progetto di unità, non del proprio tornaconto".

In questo momento più che mai trovo sia necessaria la nascita di un coordinamento dei nostri blog di centro-dx, non più degli utilissimi aggregatori di notizie ma una struttura pubblica, da far conoscere ai nostri deputati e senatori, in cui attraverso le nostre voci, sia chiaro che il nostro obiettivo non è il potere ma la crescita ed il bene del nostro paese.

mercoledì 11 giugno 2008

Il silenzio (ovvero l'insostenibile leggerezza dell'informazione)

Chi segue il nostro blog mi chiede come mai questo silenzio

Vi dirò, a parte il "tempo tiranno" e la rottura del PC di casa, il motivo principale è quello che dà il sottotitolo a questo post.

Ho avuto occasione di pranzare con amici di sinistra, pranzo in cui la proporzione era 10 a 2 per loro (per fortuna io e il mio amico Fabrizio siamo alti e ben pasciuti ;-) ).

Mi sono reso conto che tutta l'argomentazione politica di una parte e dell'altra si basa sulle informazioni che ci arrivano dai giornali e dalla televisione (probabilmente ormai siamo rimasti in pochi che se interessati vanno a leggersi decreti e proposte di legge).

Sono stato "attaccato" su un argomento a me molto caro la prostituzione, non avendo ancora letto nessuno dei documenti del governo me ne sono stato in silenzio ad ascoltare tutte le "accuse" che spaziavano dalla "povera prostituta schiavizzata" alla "e per quella italiana, come la mettiamo?"), ovviamente una lettura dei documenti chiariscono i vari aspetti.

Qualche giorno prima, stessa compagnia si parlava di decreto con il reato di immigrazione clandestina, la mia osservazione che si trattava in realtà di un punto di un disegno di legge in realtà è stata accolta con un "va be' cosa cambia".

Il discorso non cambia quando dalla "nostra" parte viene commentato un'apertura liberista di un qualsiasi ministro, tranne gli amici che si vanno a documentare tutti gli altri iniziano a lanciarsi in iperboli di scristianizzazione del paese. E non fa eccezione che invece critica qualsiasi uscita considerata reazionaria o filopapale.

Ho apprezzato per esempio il discorso di Mariastella Gelmini (di cui il sempre attento Max Bruschi riporta il testo integrale) che non ha cancellato l'operato di Fioroni, riconoscendone l'utilità e la bontà, eppure il commento bipartizan che ho sentito è stato che vuole fare "la maestrina e tornare alle punizioni".

Allora permettetemi ancora un po' di silenzio (magari intervallato da qualche piccolo appunto), ho selezionato tra alcuni dei blog che leggo quelli che trovo sempre correttamente documentati.
Li potete trovare nella pagina pubblica di netvibes (se volete segnalarmi altri blog li metterò volentieri).
In alto nella colonna di destra potrete invece trovare i comunicati presi da www.governoinforma.it

venerdì 6 giugno 2008

Questa sera ad Otto e mezzo su La 7

Cari amici,
vi segnalo che questa sera alle 20.30, Carlo Giovanardi, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio per la Famiglia sarà ospite di Alessandra Sardoni e Lanfranco Pace nel programma di La 7 "Otto e mezzo".