lunedì 13 ottobre 2008

Ancora sulla Riforma Gelmini

Riporto un interessante intervento in aula dell'On. Stracquadanio (mi scuso sempre per la lunghezza, ma la riforma della scuola non è un argomento facile, risolvibile in quattro slogan come stanno tentando di farci credere a sinistra):


Mentre siamo qui nell'Aula del Parlamento a discutere di scuola e del modo di renderla migliore e più adeguata alle esigenze di una nazione competitiva (che, se vuole competere, deve avere innanzitutto una buona scuola), fuori di qui, in un teatro, il leader di un pezzo dell'opposizione (e devo dire, grazie a Dio, di un pezzo soltanto, anche se quello prevalente) sta tenendo una manifestazione e sta usando argomenti per lo più demagogici, come li abbiamo sentiti in Aula, ma si guarda bene dal venire a confrontarsi nell'Aula del Parlamento dopo avere lamentato la mancanza di questo confronto. Forse perché, nell'Aula del Parlamento, signor Presidente, è difficile ripetere senza essere smentiti alcune bugie che si possono dire ai giornali, come quella del Ministro giunto a Cernobbio in elicottero, additandola così come un esempio di comportamento moralmente riprovevole, perché un Ministro non giunge a un seminario internazionale in elicottero. Si è poi scoperto che un infortunio giornalistico, subito corretto, aveva detto che il Ministro era giunto in elicottero, quando il Ministro era giunto con i suoi mezzi personali, in auto; però, si continuano a ripetere nei confronti del Ministro dell'istruzione menzogne di questo tipo.

Come è possibile confrontarsi seriamente sulla scuola, quando l'atteggiamento del leader di un partito che si dice riformista, e che riformista non è, è quello che ho appena descritto? Grazie a Dio, in questo Parlamento non abbiamo solo questo tipo di posizioni: abbiamo sentito prima dalle parole della collega dell'Udc tutt'altro taglio e tutt'altra impostazione nei confronti dei problemi della scuola.

Non sarei intervenuto in questo dibattito sulla scuola, se non avessi sentito in Aula da stamani una montagna di aria fritta, fatta di cattiva sociologia, cattiva pedagogia, cattiva propaganda e cattiva politica; una montagna di argomenti che hanno al centro soltanto un'idea: «Nulla dev'essere cambiato, perché la scuola, così com'è, è la scuola che noi abbiamo costruito e che riteniamo di dover difendere come tale».
Anche il collega che mi ha preceduto si è lamentato del fatto che il Ministro non difendesse l'esistente, come se questo esistente potesse essere accettabile!

Tutti hanno parlato dei dati dell'OCSE, ma vogliamo discutere un minimo di dati comprensibili a tutti senza esprimerci genericamente e in un modo, per così dire, da esperti di dati? Parliamo di qualche numero. Abbiamo il 17 per cento di laureati tra i venticinque e i trentaquattro anni contro il 33 per cento dei venticinque Paesi più industrializzati (siamo sotto il livello del Cile e del Messico); i nostri diplomati sono il 15 per cento in meno della Grecia e il 5 per cento in meno della Slovenia; i nostri giovani di quindici e sedici anni hanno il più basso livello di preparazione in tutta Europa in materie scientifiche, in matematica e nelle lingue straniere.

Per misurare di che si tratta, dobbiamo parlare di questi test spiegandoli. Lei sa, signora Presidente, che il 60 per cento degli studenti ignora perché si susseguono il giorno e la notte? Posti di fronte a quattro risposte in un test sul perché notte e giorno si susseguono (e la risposta è semplice, ossia perché la Terra ruota intorno al suo asse), essi danno nel 66 per cento dei casi una risposta sbagliata! E questa sarebbe la scuola che noi dovremmo difendere? Ma lei lo sa che il 30 per cento degli studenti del liceo è in difficoltà nel risolvere questo problema: il tasso di cambio tra il dollaro di Singapore e il rand del Sudafrica è di 1 a 4,2; quanti rand valgono 3.000 dollari di Singapore? Ebbene, la risposta sta in una moltiplicazione: 3.000 per 4,2 uguale a 12.600. Il 30 per cento dei liceali non sa risolvere questo problema elementare! E questa sarebbe la scuola che noi vogliamo e dobbiamo difendere? Questa scuola sta alla base della perdita di competizione del nostro Paese. Vogliamo andare avanti?

Si è detto che la scuola elementare è la migliore nelle classifiche, ma anche su questo ho qualche osservazione da fare. Nella scuola elementare di un tempo - ed era molto migliore di quella attuale - si insegnavano cose semplici, per esempio le quattro operazioni e le tabelline. Oggi si insegna invece l'insiemistica, con il risultato che abbiamo reso relativo quello che invece è assoluto e certo, e cioè il numero, ed abbiamo trasformato i numeri in opinioni invece di rafforzare il senso e il valore simbolico di precisione del numero. Si insegnava a scrivere in un modo comprensibile e non si diceva invece, come si dice oggi, che la calligrafia comprime la personalità; si insegnava la geografia, si insegnavano i mari, le terre emerse, i fiumi, i laghi e le montagne; si insegnava la morfologia di un territorio. E invece adesso si insegnano il sopra e il sotto, il dietro e il davanti, e tutti questi, signora Presidente, vengono chiamati indicatori topologici della spazialità. Dietro questo linguaggio incomprensibile, sociologistico, pedagogistico si nasconde il grande vuoto anche, ahimè, della scuola elementare nella quale un tempo si insegnava che la storia è innanzitutto una successione cronologica di eventi e non si diceva ciò che ha detto un'insegnante in una lettera inviata a Il Messaggero, e cioè che lei si rifiuta di insegnare i «fatterelli» della scuola mentre invece vuole insegnare le cause che stanno alla base degli eventi storici, come se si potessero comprendere le cause di qualcosa senza conoscere il «qualcosa» medesimo!

Questa, signora Presidente, è la scuola di cui parliamo e che abbiamo davanti. In quest'Aula ho sentito tante argomentazioni, ma non ne ho sentite alcune elementari e semplici, così come non ho sentito porre alcune domande: quali compiti dovrebbe assumere la scuola in una società moderna - ma in una qualunque società - che voglia dirsi tale? Probabilmente dovrebbe insegnare a leggere, a scrivere e a far di conto inizialmente. Dovrebbe formare buoni cittadini. Dovrebbe dare opportunità di successo sociale a tutti, al figlio dell'operaio come al figlio del professionista, garantendo quelle eguali opportunità tali da creare quella mobilità sociale che è al cuore di una società democratica e che dovrebbe stare ancora più a cuore alla sinistra. Mentre, invece, una scuola che non svolga questi compiti, che non formi buoni cittadini, che non insegni a leggere, a scrivere e a far di conto, che non dia, appunto, opportunità a tutti, sarà una scuola che creerà discriminazioni e ingiustizie. Sarà una scuola che consoliderà le differenze sociali, perché il figlio del professionista, dell'avvocato o del medico, avrà altro da poter godere per la sua formazione di diverso e di meglio della scuola che gli dà la società, mentre gli altri si dovranno accontentare di quel poco che gli dà la scuola. Non è un caso che l'Italia tra i Paesi occidentali è quello che ha la più bassa mobilità sociale e che più consolida le differenze di partenza anche nel percorso successivo dei giovani, e ciò proprio perché la scuola è stata degradata a qualcosa di diverso.
La scuola cosa dovrebbe mettere al centro, colleghi? Dovrebbe mettere al centro gli studenti, gli scolari: tutto il resto dovrebbe ruotare intorno all'obiettivo di fornire loro opportunità e conoscenze. Non dovrebbe mettere al centro gli insegnanti, perché come gli ospedali mettono al centro i malati e la loro salute e tutti coloro i quali lavorano hanno come prima missione quella di garantire la salute dei pazienti, la prima missione di chi lavora nella scuola dovrebbe essere quella di assicurare opportunità, insegnamento, conoscenze e cultura. La scuola, invece, ed è risuonato nelle parole dei nostri colleghi, è innanzitutto il luogo di lavoro degli insegnanti. La sinistra, che è sinistra sindacale, prima ancora di essere sinistra politica, e che comunque non è mai riformista, difende con essi un blocco sociale di riferimento e un blocco culturale che si è creato negli anni.

Una buona scuola influisce direttamente sullo sviluppo di una nazione. L'Italia, che non ha materie prime, non può pensare di competere nel mondo senza avere persone preparate, tecnici competenti, professionalità diffuse. La via maestra che abbiamo per restare nei primi posti della competizione internazionale è nella nostra capacità tecnologica, nel nostro capitale umano. Fino agli anni Sessanta, l'Italia aveva la leadership di una serie di importantissimi settori tecnologici. Eravamo in testa nella chimica, in cui avevamo espresso il premio Nobel con Giulio Natta, nell'elettronica, nel nucleare, nella ricerca farmaceutica. Avevamo ovunque industrie di eccellenza, avevamo una classe di laureati, di tecnici e di diplomati di altissimo livello, che il mondo ci invidiava.

Poi sono venuti il Sessantotto, gli errori di politica industriale e una cultura anti-industriale, pauperistica e falsamente egualitaria, che ha distrutto la scuola e che ha trasformato quello che era il principale asse culturale del nostro Paese, il merito, in qualcosa che andava cancellato e dimenticato. Per troppi anni si è parlato di diritto allo studio, confondendo l'opportunità di studiare per acquisire professionalità e per accrescere la propria voglia di fare, con il diritto a ricevere automaticamente, dopo un certo numero di anni, un titolo di studio. Così quello che era un diploma ambito, perché dava professionalità e opportunità di mobilità sociale, è diventato un pezzo di carta, un'illusione che spesso si è tradotta nel suo opposto: nella frustrazione delle possibilità offerte da un'accresciuta scolarizzazione.

Una frustrazione che ha colpito, innanzitutto, i ceti meno agiati del nostro Paese, perché i ceti più agiati hanno potuto procurarsi conoscenza, apprendimento e professionalità attraverso altri canali, andando all'estero, e non dovendosi accontentare di quello che gli dava la scuola italiana. Se oggi tanti giovani laureati lavorano nei call center, dove è richiesta una professionalità non di altissimo livello, non è colpa del mercato del lavoro, ma è, probabilmente, responsabilità di una scuola che non forma.

È sbagliato il sistema formativo, non è sbagliato il mercato del lavoro, e la laurea vale più di un diploma. Il Sessantotto è al centro delle responsabilità: non è un fatto ideologico, è un fatto storico, signora Presidente: ha inventato alcune cose che sono state alla base della distorsione del nostro modello formativo. Ha inventato il voto politico, che è la negazione stessa del voto; ha inventato la lotta alla selezione, che ha portato alla cancellazione del merito e all'idea che la promozione sia un automatismo, quasi fosse un diritto di anzianità scolastica; ha portato l'esame di gruppo e l'idea che non vi sia selezione individuale, cancellando così ogni possibilità di valutazione della crescita e dell'acquisizione delle conoscenze; ha portato, appunto, al diritto di studio, che è diventato diploma, senza preparazione, per tutti, cioè nulla e illusione collettiva; inoltre, ha portato studenti che giudicano gli insegnanti, in modo tale che l'insegnante migliore non è quello che dà il migliore degli insegnamenti e che è più esigente nelle sue richieste, ma quello che concede la promozione senza nulla chiedere in cambio e senza fare fatica (vocabolo che è stato cancellato dalle nostre scuole e che è cancellato dagli interventi dell'opposizione, sedicente riformista, ma assolutamente reazionaria e conservatrice, del Partito Democratico).

Con queste brillanti idee che, come abbiamo ascoltato oggi nell'aula del Parlamento, non sono state abbandonate dalla sinistra, l'università è diventata un liceo, e non dei migliori, il liceo è diventato una scuola media, e non delle migliori, la scuola media è diventata una scuola elementare, e non delle migliori. Così abbiamo i risultati dell'OCSE, quelli che abbiamo citato prima.

E cosa si dice però da parte dell'opposizione del Partito Democratico? Si dice che tutto ciò è dovuto al fatto che nella scuola italiana si spende meno e questo Governo intende tagliare. Forse dovremmo intenderci sui numeri e sulla dimensione economica della scuola in Italia. Ho qui qualche appunto che può essere interessante esaminare (raccolgo le mie carte, signor Presidente, perché non voglio fornire dati errati). Spendiamo poco per la nostra istruzione? Il confronto con i Paesi OCSE ci dice che non è vero che noi oggi spendiamo poco. Se facciamo il raffronto tra spesa scolastica e prodotto interno lordo, spendiamo il 3,5 per cento del nostro PIL, come la Germania, leggermente meno della Francia e della Gran Bretagna, nella media perfetta dei 25 Paesi più industrializzati dell'OCSE. Se confrontiamo il rapporto tra spesa per l'insegnamento, per la scuola, per l'istruzione e spesa pubblica totale, vediamo che anche in questo caso l'Italia sta nella media: spendiamo un po' più della Germania e spendiamo come la Francia. Vi è però un confronto, quello vero, che andrebbe fatto e che nessuno in quest'Aula ha ancora fatto, da parte dell'opposizione: la spesa normalizzata per studente, perché è quella che dà la vera misura di quanto un Paese spende, rispetto alla funzione che deve svolgere, in questo caso quanto è l'investimento che l'Italia fa nei confronti di ciascuno studente che frequenta la scuola. Noi spendiamo 5.710 euro a studente, molto più della media OCSE, che è di 4.623 euro, e spendiamo circa 1.000 euro in più della Germania e della Gran Germania e 500 euro in più per studente della Francia, per ottenere i risultati che abbiamo descritto prima, i risultati di un disastro e di un fallimento educativo, fatto di quel pedagogismo e di quel sociologismo di cui abbiamo sentito l'eco per tutta la giornata di oggi, da parte del Partito Democratico, nell'aula del Parlamento.

Allora, forse, dovremmo proseguire con qualche numero: il bilancio del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca è oggi di circa 42 miliardi e mezzo di euro; nel 1999 spendevamo 32 miliardi: in meno di dieci anni la spesa è cresciuta di 10 miliardi di euro, ben 20 mila miliardi delle vecchie lire, cioè il 30 per cento in più, senza che ciò abbia portato ad alcun miglioramento, anzi abbiamo peggiorato i nostri standard, secondo tutte le statistiche e le valutazioni internazionali e nazionali e la valutazione del buonsenso che ciascuna famiglia fa rispetto alla propria scuola.

Non siamo soltanto noi e i numeri a dirlo, lo ha fatto anche lo scorso Governo in sede di Commissione tecnica per la spesa pubblica. Nel rapporto della Commissione cosiddetta Muraro, istituita per iniziativa del Ministro Tommaso Padoa Schioppa, si afferma che la spesa per studenti in Italia è tra le maggiori dell'OCSE e il rapporto tra insegnanti e studenti è molto più alto che altrove; eppure, i risultati misurati nei test di apprendimento utilizzati a livello internazionale sono modesti. Questa è la realtà della scuola italiana.

Si dice che il Governo abbia in previsione tagli per 8 miliardi e la riduzione di 120 mila posti di lavoro. Possiamo illustrare la situazione generale? Intanto possiamo dire che abbiamo troppi insegnanti e abbiamo degli stipendi per gli insegnanti assolutamente inaccettabili: 30 mila euro l'anno di media contro i 38 mila della media OCSE e i quasi 50 mila euro della Germania. Ciò avviene perché l'Italia ha un insegnante ogni 9 alunni, mentre la media europea è di 12 e alcuni Paesi viaggiano su una media di 14 o 16. Inoltre, come è stato ricordato già da alcuni colleghi, molti insegnanti lavorano meno di altri: 735 ore, contro le 812 della media OCSE. Allora noi non spendiamo poco: spendiamo molto male. In dieci anni si è registrato un incremento del 30 per cento delle spese e il 97 per cento della spesa è destinata agli stipendi, contro l'81 per cento di media dei Paesi OCSE. Per investire nella scuola a noi resta il 3 per cento, laddove gli altri hanno a disposizione il 20 per cento in più.

Siamo stati solo noi del Governo di centrodestra, signora Presidente, ad affermare tutto questo? Nel 1998 il Governo D'Alema aveva previsto per allora una riduzione del personale del 4 per cento in tre anni. Ebbene, nonostante quella previsione, la cattiva politica di quel Governo che ha mancato i suoi obiettivi ha portato alla crescita del personale del Ministero dell'istruzione di quasi il 6 per cento, mentre intanto calava il numero degli studenti: via via che calava il numero degli studenti cresceva il numero degli insegnanti, secondo una logica totalmente irrazionale rispetto agli obiettivi della scuola e totalmente guidata dalla necessità di fare della scuola il più grande ammortizzatore sociale e il più grande centro di reclutamento clientelare e dispensatore di illusioni nei confronti delle giovani generazioni e di quei laureati (pochi e male) che la media OCSE denuncia.

Sempre in quegli anni si sarebbe dovuto verificare il passaggio allo Stato di 72 mila unità appartenenti al personale amministrativo e tecnico degli enti locali. Lo Stato ne ha assunti 132 mila invece che 72 mila, 60 mila in più, garantendo gli stessi servizi o forse anche meno. Ciò è tanto vero che nel 1998 era stata prevista (proprio per la riduzione del personale ausiliario) la possibilità di affidare alcuni servizi agli appalti esterni: i servizi sono affidati agli appalti esterni e abbiamo più personale tecnico e ausiliario all'interno della scuola, un'ulteriore contraddizione in base alla quale, ad esempio, nel libro di Gian Antonio Stella, La deriva, è stato scritto che esiste una nuova figura professionale in Italia, quella delle «scodellatrici» che appositamente vengono reclutate per scodellare la pasta alla mensa scolastica, perché non è compito del personale ausiliario servire la pasta ai bambini.

In questo contesto, signora Presidente, dire che noi facciamo macelleria sociale, che distruggiamo la scuola, che compromettiamo il futuro del Paese solo perché prevediamo nei prossimi tre anni che questo disastro venga riorganizzato in maniera che si passi da un milione 300 mila dipendenti della scuola pubblica a un milione 200 mila per poter essere adeguati alla richiesta di formazione del Paese, per poter corrispondere migliori retribuzioni e per riservare una parte della spesa a favore degli investimenti, credo che sia irresponsabilità demagogica.

Si tratta della stessa irresponsabilità che ha portato, appunto, in questi dieci anni all'esplosione della spesa pubblica nella scuola, senza che a questo abbia corrisposto di un centesimo il miglioramento della qualità, anzi si è vista la qualità della nostra scuola costantemente declinare e degradarsi.

Ma veniamo al punto che è stato scelto come una bandiera ideologica dall'opposizione del Partito Democratico: quello che è stato chiamato il maestro unico. Mi permetto, qui, di dare un suggerimento al Ministro e al sottosegretario: non parliamo di ritorno del maestro unico, parliamo di ritorno del maestro, perché la scelta del modulo - che non è il maestro - è la fine della figura professionale e civile del maestro stesso. Il Partito Democratico e il suo leader si riempiono la bocca dell'insegnamento di Don Milani e dimenticano che Don Milani non era un modulo, ma era un maestro, e che forse il maestro è quello che è più in grado di formare personalità che crescono, ma per una ragione molto banale: è inutile invocare la complessità dei saperi, lo sviluppo delle conoscenze, quando non siamo in grado di insegnare ai nostri studenti che un problema di cambio si risolve con una moltiplicazione.

Queste sono parole vuote, questo è pedagogismo d'accatto. Noi dobbiamo dare ai bambini un maestro, perché il maestro si occupa complessivamente della formazione del bambino e non della sua disciplina; perché il maestro ha la responsabilità piena della sua classe; e perché, se fosse vera la tesi secondo cui maggiore è il numero degli insegnanti, maggiore è la qualità della scuola, la nostra scuola superiore dovrebbe essere al vertice delle classifiche mondiali (vista la quantità di docenti che c'è al liceo) e invece è in fondo a queste classifiche. Infatti, si fanno ragionamenti assolutamente strampalati sul ruolo dei docenti, ben sapendo (e lo hanno scritto tutti) che quando si scelse di passare dal maestro al modulo - che non è il maestro, perché è un'altra cosa - lo si scelse perché la natalità era calata, il numero degli scolari era diminuito e se si fosse proceduto secondo un razionale disegno, in cui un servizio deve venire erogato in base a quanto esso viene richiesto, si sarebbe dovuto procedere a convertire del personale, che allora insegnava, in qualcos'altro, e dire che l'Italia aveva bisogno di un numero minore di insegnanti, di maestri, di quanti ne aveva.

Invece, si è escogitato il trucco del modulo e lo si è ammantato di motivi pedagogici e di argomenti assolutamente inconsistenti, che fanno parte della retorica in cui la scuola italiana è stata mandata al disastro e per la quale un giornalista di sinistra come Floris, il conduttore di Ballarò, l'ha definita, senza tema di smentite, «la fabbrica degli ignoranti».

Ora, signora Presidente, perché il Governo e la maggioranza hanno agito con un decreto-legge? Questo è stato un tema richiamato. Perché molti di questi provvedimenti che sono contenuti nel decreto-legge dovevano essere operativi dal primo giorno di scuola, ed è noto che la scuola inizia a settembre. Settembre è finito, e noi stiamo discutendo adesso di questo decreto-legge. Se avessimo indugiato, se il Governo avesse indugiato e non avesse presentato un decreto-legge, avrebbe probabilmente fallito nei suoi obiettivi di cambiamento e nella necessità di cambiare il passo nei confronti della scuola.

Si dice che si sarebbe potuto evitare di introdurre qui il ritorno della figura del maestro, perché questo entrerà in vigore soltanto il prossimo anno. Signora Presidente, il Parlamento della Repubblica ha approvato una manovra di politica economica che non ha solo il senso - come dicono i colleghi del Partito Democratico - di tagliare, ma ha il senso di riportare in bonis il bilancio della Repubblica italiana e di blindare i conti pubblici, perché l'economia italiana non vada precipitosamente verso il disastro, del quale pagherebbero le più alte conseguenze i ceti popolari, e non certo i ceti benestanti.

Riportare in bilancio in bonis, vuol dire anche riportare il bilancio della scuola in bonis, facendo sì che si possa offrire il miglior servizio al minor costo, cercando, per esempio, anche di attivare quella scuola paritaria che ha dato prova, in questi anni, di costare meno al contribuente e di dare migliori risultati al Paese. Ovvero, cercando di riattivare un circuito virtuoso per il quale l'insegnante deve essere persona degna di rispetto e di considerazione e non deve finire sottoproletarizzato, così come venti anni di cattiva politica hanno fatto, con uno stipendio indecente e chiedendogli però, a fronte, una professionalità adeguata. Riportare la scuola in bonis vuol dire innanzitutto ridarle un senso e una missione, la missione che aveva smarrito e che questi provvedimenti possono finalmente restituirle.

Ci saremmo attesi dal Partito Democratico parole di questo tipo, visto quello che doveva essere lo slancio riformista annunciato al Lingotto. Ci saremmo attesi parole del tipo: «Per avere un'Italia migliore abbiamo bisogno di una scuola migliore; le condizioni del nostro sistema scolastico richiedono scelte coraggiose di rinnovamento e non sono sostenibili posizioni di pura difesa dell'esistente; l'Italia deve ridurre a zero il suo deficit e nessuna parte sociale e politica può ridurre questo imperativo e questo comporta anche un contenimento delle spese della scuola». Questo ci saremmo attesi dal leader del Partito Democratico che voleva essere riformista. Grazie a Dio queste parole sono venute oggi dal Capo dello Stato, che ha reso onore alla sua storia di riformista e alla Repubblica mentre nel teatro Capranica si rende omaggio soltanto alla cattiva demagogia e alla cattiva politica che hanno distrutto il Paese.



On. Giorgio Stracquadanio

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